Civiltà dell’universale e fratellanza umana. Tributo a Léopold Sédar Senghor
Sono molto lieto di aprire questo simposio, con tanti illustri relatori. Il tema è particolarmente importante perché rimette al centro la lezione politica, umana, culturale e artistica di un vero leader africano quale Senghor; in verità le sue idee non solo sono molto attuali, ma anche necessarie. Studioso, poeta, leader politico, filosofo, cantore della “negritude”, Senghor ha molto da dire non solo all’Africa ma al mondo intero, e il dibattito culturale e politico del nostro tempo deve utilmente riscoprirlo. Oggi noi mettiamo l’accento su un concetto essenziale del pensiero di Senghor, quello della “Civiltà dell’universale”. Si chiede giustamente una studiosa del suo pensiero, se nell’epoca «del postmoderno globale, neonazionalista ed etnicista» non sia particolarmente stimolante «la sua valorizzazione del “meticciato” e l’auspicio di un incontro delle culture all’appuntamento dell’universale».[1] È un punto chiave nella architettura del pensiero del primo presidente del Senegal, e credo che vada compreso nella sua attualità.
Senghor era nato in piena epoca coloniale, durante la quale veniva affermato che la dominazione europea era giustificata dalla sua “missione civilizzatrice”: il «white men’s burden» nelle parole di Kypling. Leggendo il percorso formativo di Senghor sembrerebbe apparentemente quello di un ideale “francese di pelle nera”: studente prima a Dakar in seminario poi, grazie ai suoi successi, presso il prestigioso liceo Louis le Grand di Parigi, in seguito alla Sorbona, diviene addirittura insegnante di Lettere nel 1936-37 presso il liceo “Descartes” di Tours. Senghor però, lungo tutto questo lungo percorso di formazione, non sogna di essere un semplice “assimilato” alla Francia, non vuole amputare dal suo animo tutto il deposito culturale, storico, emozionale e familiare africano. Insieme ad altri giovani di valore, come Aimé Césaire e Léon Damas, si ritrova nel 1935 intorno alla rivista “L’Etudiant noire”, che diviene il laboratorio del concetto di “negritude”, parola chiave dell’intreccio culturale e politico degli anni successivi. Senza voler riassumere il ricco e vivace dibattito che ha circondato l’introduzione di questa categoria, vorrei puntualizzare l’uso fattone da Senghor. Per lui questo concetto voleva certamente racchiudere la specificità della cultura e della civiltà africana, ed in generale dell’uomo africano, in tutta la sua ricchezza e armonia. Scrive Senghor per spiegare compiutamente come questa identità fosse presente in lui fin da bambino:
In occasione della prima comunione, che ho fatto a dieci anni, nel fervore, ci veniva presentata la beatitudine celeste come la contemplazione di Dio: cioè di un vegliardo bianco dalla barba bianca. Io trovavo questo veramente scipito e monotono. E […] io sognavo che la beatitudine celeste consistesse a cantare e danzare davanti il trono di Dio, come Davide. Di cantare con gli Angeli, in coro polifonico. E le nostre ali erano blu, rosse e variegate di colori. Era già il primo segno del mio gusto per le Lettere e le Arti. Per la poesia [corsivo del testo, Nda], nel senso etimologico della parola, come l’intendevano i Greci, ma anche i Senegalesi. Come lo dice, ancora una volta, il nostro popolo, identificando “canto” e “poema”, come delle “parole gradite al cuore e all’orecchio”.[2]
Per Senghor la “negritudine” è uno strumento per una battaglia culturale e politica, ma non da intendersi in senso isolazionista o peggio autoreferenziale: al contrario esso viene usato in forma completamente relazionale, come il contributo specifico africano al cammino dell’umanità verso una nuova e affascinante civiltà. È stato giustamente osservato: «Formato ad immagine della “Civiltà”, cioè dell’Europa, Senghor sentì germogliare in lui molto presto i germi di una ribellione personale contro la condiscendenza della mentalità coloniale; forgia “l’idea, non la parola, di una civiltà nera diversa ma uguale”».[3]
Politicamente attratto dal socialismo marxista, come un alfabeto utile per la decifrazione del moderno e per una sua umanizzazione, Senghor vuole però che gli elementi culturali e politici nati nel contesto europeo possano incontrare in modo fecondo l’universo storico, culturale e sociale africano. Affascinato dal pensiero di Teillhard de Chardin, opera un’originale sintesi delle categorie teologiche dello scrittore gesuita, grazie al quale crea una vera e propria cosmogonia. L’inarrestabile cammino dell’umanità verso il “Punto Omega”, descritto da Teillhard come il Cristo, pienezza di umanità e divinità, diviene in Senghor il cammino dell’umanità, nel suo insieme, nelle sue diverse civiltà, verso una sintesi nuova: “la Civiltà dell’Universale”, appuntamento del dare e del ricevere per tutte le civiltà. Non l’espansione di un’unica civiltà dominante, imperialista avrebbe dovuto segnare il futuro del mondo, bensì un nuovo umanesimo frutto di un fecondo scambio tra le civiltà.[4] Scriveva Senghor:
La civilizzazione dell’Universale sarà l’opera comune di tutte le razze – di tutte le diverse civilizzazioni – o non sarà affatto. In questo senso questa Negritudine aperta è un umanesimo. Essa si è arricchita singolarmente degli apporti della civilizzazione europea, e l’ha arricchita a sua volta. L’Umanesimo, in questo XX secolo della convergenza pan-umana non potrà che consistere in questo commercio del cuore e dello spirito: in questo dare e ricevere.[5]


Gli scritti di Senghor hanno avuto un attento lettore in Giovan Battista Montini, sempre interessato alle correnti di pensiero del mondo francofono. Il concetto di “negritudine” viene espressamente citato in un importantissimo discorso in occasione del suo viaggio, da Papa, in Africa, quando ai vescovi presenti osservava che, se avessero saputo evitare le trappole di una sterile autoreferenzialità etnica, «voi potrete formulare il cattolicesimo in termini congeniali alla vostra cultura, e potrete apportare alla Chiesa cattolica il contributo prezioso e originale della “negritudine”, del quale essa in quest’ora storica ha particolare bisogno»[6]
Montini ha in Senghor un riferimento importante, allo stesso tempo politico e culturale. È uno dei presidenti africani ricevuti più frequentemente da Paolo VI.[7] C’è una predilezione verso il percorso che il Senegal sta facendo sotto la guida del suo primo presidente[8], perché agli occhi di Paolo VI può divenire un modello sia di stato post-coloniale non ostile all’Europa e alla sua civiltà, sia di coabitazione islamo-cristiana nel segno di un umanesimo cristianamente illuminato. Senghor era profondamente convinto della necessità di una fraterno dialogo islamo-cristiano per il bene comune, concetto da lui sviluppato in uno scritto del 1960[9]. Sono temi di grande interesse per Montini, di cui si trova traccia nel discorso alle personalità islamiche nel 1969 a Kampala, ma che diverranno presto anche fonte di prime iniziative di dialogo e di incontro islamo-cristiano a cura di Monsignor Pignedoli.[10] Indubbiamente sono temi che fanno comprendere l’importanza del pensiero di Senghor, che oggi ci appare straordinariamente attuale.
Noi abbiamo vissuto gli anni della globalizzazione con l’illusione di essere entrati in un nuovo ordine dell’umanità, che molti proclamavano definitivo: democrazia, libero mercato, libera circolazione di capitali, connessione del mondo tramite internet, visione individualista della vita, tutto sembrava andare senza intoppi verso una definitiva unificazione dell’umanità, sotto il segno però della omologazione. Oggi ci troviamo in un mondo diverso, più diviso, e ci confrontiamo con nazionalismi rinascenti e contrapposizioni che giungono fino al conflitto, aperto o minacciato. Il sogno di Senghor di costruire il futuro del mondo come un nuovo umanesimo, nel fecondo “meticciato” delle culture e delle civiltà, è quindi oggi ancora prezioso per tutti: anche per questa nostra Europa, perché non accada mai più quanto cantava Senghor nel 1939:
Vedo cadere le foglie sui falsi rifugi, nelle fosse delle trincee
dove ruscella il sangue di una generazione
l’Europa che sotterra il lievito delle nazioni e la speranza delle razze nuove.[11]
Card. José Tolentino de Mendonça
[1] Barbara Cannelli, “Appuntamento con l’universale. L’opera politico-filosofica di Senghor e la ricostruzione dell’Africa” in Africa, LVII, 2, 2007, p.176.
[2] Leopold Sedar Senghor, Ce que je crois. Une mémoire pour demain, Grasset, Paris, 1988, pp.24-25.
[3] Kaiudi Claver Mabana, « Léopold Sédar Senghor et la civilisation de l'universel », in Diogène 2011/3-4 (n° 235-236), pp. 3-13.
[4] Vedere Souleymane Bachir Diagne, “Lire Marx avec les yeux de Teilhard”, in Assemblée Nationale – Organisation Internationale de la Francophonie, Léopold Sédar Senghor: la Pensée et l’action politique, Actes du colloque
organisé par la section française de l’Assemblée parlementaire de la Francophonie, Paris 2006, pp. 17-26.
[5] Léopold Sédar Senghor, Libertè 1. Negritude et Humanisme, Paris, Seuil, 1964, p.9.
[6] Paolo VI, Omelia, Celebrazione eucaristica a conclusione del Symposium dei Vescovi dell’Africa, Kampala, 31 luglio 1969.
[7] In quindici anni di pontificato, Nyerere e Senghor furono i presidenti africani a totalizzare il maggior numero di udienze papali: ben quattro ciascuno. Si veda A. Dupuy, «Paul VI et la diplomatie pontificale», in Paul VI et la modernité dans l’Église, Actes du colloque organisé par l ’École française de Rome (Rome 2-4 juin
1983), École française de Rome, Rome 1984, p. 459.
[8] Non sono parole di circostanza quelle pronunciate a dei pellegrini senegalesi da Paolo VI: “Votre Pays Nous est cher, Nous le disions au Président Senghor en l’accueillant au Vatican, le mois dernier, et Nous le redisions publiquement, il y a quelques jours […] Nous avons suivi avec intérêt la marche du Sénégal dans les voies de l’indépendance et les multiples activités de ses autorités, tant spirituelles que temporelles.” Udienza generale di Paolo VI, Mercoledì, 12 agosto 1964.
[9] S. B. Diagne, op. cit., p.21.
[10] Vedere Angelo Romano, “L’Africa di Paolo VI”, in Agostino Giovagnoli – Giorgio Del Zanna (a cura di) Paolo VI. Il Vangelo nel mondo contemporaneo, Guerini, Milano, pp.153-185.
[11] “Giardino del Lussemburgo 1939”, in Léopold Sédar Senghor, Canti d’ombra ed altre poesie. A cura di Franco De Poli, Passigli, Firenze, 2000, p.57.