INTERVENTI

L’Eucaristia, Fonte, Centro e culmine della Vita cristiana

interventi ‒ 06 agosto 2024

Perché è così importante il nostro modo di pensare e vivere l'eucaristia? La risposta che possiamo dare, anche umile e incompleta, continua a essere quella che i martiri di Abitene sigillarono nel IV secolo con il proprio sangue, quando si opposero alle prescrizioni dell'imperatore Diocleziano spiegando che, se non si riunivano a celebrare l'eucaristia, semplicemente non avrebbero potuto esistere. «Sine dominico non possumus». Vale a dire: senza la celebrazione del mistero pasquale reso accessibile nella Cena del Signore, è impossibile ipotizzare la sopravvivenza e la fioritura dell'esistenza cristiana.
È proprio questo che ricorda, a voi coppie, padre Henri Caffarel, il quale fa per l’appunto discendere la comprensione del significato del vostro matrimonio dalla presa di coscienza dell'impatto che il sacramento dell'eucaristia ha sulle vostre vite. Per capire il matrimonio cristiano a fondo occorre partire dall'eucaristia, che ne fornisce l'architettura e gli serve da fonte e modello effettivo. Queste le parole di padre Caffarel: «Marito e moglie, voi che mangiate la carne di Cristo, che bevete il suo sangue, che vivete nella vostra anima e nel vostro corpo della vita di Cristo, che dimorate in Lui e Lui in voi, come potreste non amarvi di un amore diverso da quello degli altri uomini, di un amore risorto? Potete guardarvi l'un l'altro, condividere i vostri dolori e le vostre gioie, donarvi l'un l'altro con tutto il cuore, con tutto il corpo, aiutandovi vicendevolmente per tutta la vita, senza avere la percezione che state vivendo un grandissimo mistero?». Il «grandissimo mistero» del matrimonio richiede, perciò, di essere compreso in continuità con il mistero eucaristico, poiché gli sposi vivono nella loro anima e nel loro corpo «della vita di Cristo», rimangono in Cristo, e Cristo in loro. Per questo le coppie cristiane sono chiamate a riconoscere che senza eucaristia non possono vivere, come ha sottolineato papa Francesco nell'Esortazione Apostolica Amoris laetitia là dove afferma che «il nutrimento dell’eucaristia è forza e stimolo per vivere ogni giorno l’alleanza matrimoniale» (n. 318). Chi mai potrebbe affrontare il cammino senza la forza che gli è data dal nutrimento? Chi potrebbe avanzare sulla propria strada se gli mancassero lo slancio e lo stimolo che costituiscono il motore della marcia stessa? Quando, lo scorso maggio, il Santo Padre ha ricevuto i responsabili delle Équipes Notre-Dame, ha avuto parole ben chiare: «Oggi si pensa che la buona riuscita di un matrimonio dipenda solo dalla forza di volontà delle persone. Non è così. Se fosse così sarebbe un peso, un giogo posto sulle spalle di due povere creature. Il matrimonio invece è un “passo a tre”, in cui la presenza di Cristo tra gli sposi rende possibile il cammino, e il giogo si trasforma in un gioco di sguardi: sguardo tra i due sposi, sguardo tra gli sposi e Cristo».
Se pensiamo a questa circolazione di sguardi, capiremo come l'eucaristia sia un'esperienza di amore reale, e vicina a ciò che noi viviamo. In tal modo ci immergeremo in profondità in questo sacramento che il Concilio Vaticano II dice essere «fonte e apice di tutta la vita cristiana» (LG11), e descrive come il luogo in cui «è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua, [...] il pane vivo che [...] dà vita» (PO 5).


Partecipanti al mistero di Cristo

All'Ultima Cena Gesù anticipa la sua Pasqua imminente domandando ai discepoli di leggerla e viverla come sacrificio di alleanza. L'alleanza è Gesù in persona (Lc 22,20; 1Cor 11,24). Nelle sue parole e gesti c'è un'intensità messianica che trasforma la morte annunciata in vera offerta, in fonte di vita, e che sigilla una inequivocabile chiamata alla comunione con lui.
Possiamo certamente chiederci come sia possibile condividere un evento così radicalmente personale, così ardentemente incomunicabile come la morte. «La morte è un fiore che solo una volta fiorisce» – ricordano i noti versi di Paul Celan. Ma ciò che nel mistero dell'eucaristia viene proposto ai discepoli è di disporsi a condividere quell'esperienza d'amore. E come garantisce l’apostolo Paulo, «se siamo morti con Cristo, crediamo pure che vivremo con lui» (Rm 6,8). Così, nella donazione di sé, Cristo stesso sempre ci revitalizza, ci ricrea e ricostruisce.
Nell'eucaristia ci viene aperta la possibilità di partecipare misticamente a ciò che Cristo è. Gesù si è fatto uomo affinché l'uomo, tramite la sua morte e risurrezione, partecipasse a ciò che Cristo è. E questo lo si percepisce più nitidamente «nello spezzare il pane», come testimoniano i discepoli di Emmaus. L’eucaristia ci permette finalmente di capire: è l’istanza ermeneutica per eccellenza. Emmaus ci insegna che i nostri occhi sono chiuso fino ad arrivare allo «spezzare il pane». Questa scoperta della portata soteriologica della figura di Cristo rappresenta, per ogni discepolo e ogni discepola di Gesù, il punto di partenza e l'orizzonte di un'esistenza rinnovata. L'eucaristia diventa per noi luogo dove gustare la salvezza. Quella trasformazione decisiva dell'Essere Umano a cui aspiravano i rituali dell'antica alleanza senza riuscire a garantirla od operarla una volta per tutte è ora assicurata dal sacrificio integrale della vita di Cristo, offerta «una volta per tutte» (Eb 10,10). Gesù si è offerto al Padre, con un atto d'amore unico, per un destinatario differente da sé stesso: i fratelli. La vita di Gesù diventa una seminagione di esistenze che imparano a trascendersi e a considerarsi come dono, come amore interattivo fatto di gratuità e di oblazione. Modellata sull'esistenza di Gesù, la vita cristiana è in questo modo chiamata ad approfondirsi e ampliarsi. Noi non rimaniamo gli stessi. In ogni eucaristia ci scopriamo sfidati a uscire da noi stessi e a cercare in Cristo il nutrimento che sazia.
È così che, fondata su Cristo, suo principio e fondamento perenne, la Chiesa non si considera dipendente da lui solo sporadicamente o a lui legata sociologicamente, come in una relazione esterna. La Chiesa proviene da Cristo in maniera assolutamente forte, determinante e intima. L'eucaristia dimostra che essa è tratta dal fianco aperto di Cristo (cf. Gv 19,34) così come dal fianco dell'Adamo addormentato il Creatore trasse Eva; e la sua natura si basa sul mistero della persona di Gesù Cristo e della sua memoria salvifica. La comunità in ogni eucaristia proclama: «Per Cristo, con Cristo, in Cristo». È in questo modo che la Chiesa vive: vive di e per il suo Signore. È chiamata in ogni tempo a volgersi verso Cristo, a convertirsi a lui con tutto il cuore. La vita completamente donata di Gesù diviene la straordinaria possibilità di vita per la Chiesa e, attraverso di essa, per il mondo. E tale affermazione si applica tanto alla Chiesa nel suo insieme, come corpo mistico di Cristo, quanto a ogni Chiesa domestica – la Chiesa che voi, cari sposi, rappresentate.


«Prendete, e mangiatene tutti»

«Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi». Sarebbe forse importante meditare sul significato antropologico di queste parole. Perché non di rado si sente dire, anche tra i cristiani, che l'eucaristia è un rituale difficile, troppo ripetitivo, con il quale fatichiamo a stabilire una relazione permanente e affettiva. Abbiamo coltivato la fame di tante cose secondarie e poi abbiamo talvolta lasciato indietro la fame, il bisogno di eucaristia. Proviamo, per esempio, a meditare sul verbo “mangiare” e su come esso da sempre ci accompagna. Così antico, così necessario, così presente, così ricco di significato per la nostra vita. La relazione con il mondo l’abbiamo inaugurata con la nostra bocca. È stata la prima forma di comunicazione, la prima forma di inserimento in questa storia e anche la prima forma di amore. Pensiamo al verbo “mangiare” e a quanto abbiamo appreso di ciò che questo verbo rappresenta lungo tutta la nostra vita. Pensiamo alla quantità e alla qualità dei pasti che abbiamo preso nella nostra vita e a come, senza di essi, la nostra vita non sarebbe quella che è, o semplicemente non sarebbe affatto. In famiglia lo sappiamo bene. Perché ci sono dimensioni fondamentali della vita, della vita biologica ma anche di quella spirituale, della vita come progetto di esistenza, che di fatto ci raggiungono grazie al verbo “mangiare”.
Mangiare non è solo inghiottire. Mangiare è capacità di incorporare, capacità di ruminare e metabolizzare il mondo, di fare una sintesi nuova, di costruirsi. Non è solo mandar giù bocconi di realtà esterna che così passano nel nostro mondo interno, è anche un processo di trasformazione. E per noi umani il verbo “mangiare” ha inoltre una caratteristica particolare: anche quando lo facciamo da soli, mangiare è sempre un atto di relazione, un atto, se vogliamo, sociale. Un pasto è un'azione comunitaria perché nel nostro orizzonte presuppone sempre l'altro. In realtà noi ci sediamo a tavola perché ci nutriamo gli uni degli altri, perché abbiamo bisogno di interiorizzare la presenza gli uni degli altri, la loro parola, volto, affetto. E questa silenziosa coreografia diventa per noi un vero alimento senza cui non esisteremmo.
Quando Gesù diceva «la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6,55), sapeva bene che con il suo gesto d'amore stava per rendersi cibo di vita per i suoi discepoli. Quando afferma «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno», Gesù lancia una sfida. Ci sta invitando: "Mangiate la Vita che io sono. Nutritevi della Vita divina che io rappresento, incorporate la mia Vita, la mia Carne e il mio Sangue".

 

Costruiti e generati dall'eucaristia

Ci riuniamo attorno alla mensa eucaristica per nutrirci di Cristo. È per questo che la Chiesa nasce e rinasce intorno all'altare e i cristiani non possono vivere senza eucaristia. «Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà» (Gv 6,50).
Dire che il pane è pane… è una cosa banale. Gesù va oltre, ricordando che il pane è dono, dono di sé, consegna di sé stessi, desiderio che l'altro viva. Il pane non è stato inventato solo perché qualcuno era affamato e ha trovato una soluzione provvisoria al suo problema, no! Il pane è stato inventato da uno che voleva che gli altri vivessero. Il vero alimento che nutre è inseparabile dal desiderio che l'altro viva, dal desiderio che tu sia, tu possa sussistere in pienezza! E Gesù lo dice non solo in riferimento a un pane materiale, ma riferendosi al suo stesso Corpo.

Questa è la testimonianza che Cristo ci dà fino alla fine dei tempi. E se egli ha voluto che la sua memoria fosse celebrata nella ripetizione della sua Ultima Cena e nel ricordo di queste sue parole, è perché noi possiamo avere una misura e un modello per relazionarci gli uni con gli altri. Ad ogni eucaristia noi ci riuniamo per celebrare il dono sacrificale che Gesù fa di sé stesso, la trasformazione della vita in nutrimento, della sua carne stessa in cibo. La domanda è se poi, similmente a Gesù e a quanto egli ha fatto per noi, anche la nostra vita diventa nutrimento per gli altri.

A tavola Gesù ci dà la grande prova d'amore, ma anche la grande lezione. L'eucaristia è una lezione. Una lezione reale e persistente. Andiamo all'eucaristia per imparare da Gesù come fare, e tutti abbiamo bisogno di maturare per rendere i nostri giorni, il nostro avere e il nostro sapere un dono che nutre. Perché sappiamo che nella bisaccia il pane può diventare duro. Può morire senza aver compiuto la sua missione. Se il pane non viene messo sulla tavola e servito, va perduto. Il pane che non viene subito offerto diventa ben presto uno spreco. E anche la nostra vita può andare perduta. Per questo la parola del Vangelo è: chi vuole guadagnare la vita deve donarsi, deve consegnarsi (Cf Mt 16,25). Non è automatico. Possiamo vivere un’intera vita senza che il nostro corpo sia cibo per qualcuno. Possiamo vivere nell'egoismo, soggiogati da quella dittatura dell'indifferenza di cui parla papa Francesco, sprofondati in una zona di comfort che rende la nostra vita impermeabile. Nessuno ci viene incontro perché noi viviamo in una capsula, proteggendoci da tutto e da tutti. Quando ci comportiamo così, la nostra vita non diventa nutrimento per nessuno. E in fondo sperimentiamo una totale estraneità a Gesù, simile a quella degli scribi che si chiedevano: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (Gv 6,52). E noi, lo sappiamo o no come si può dare la propria carne da mangiare?

Tutte le vite rientrano nell'immagine quotidiana del pane che si spezza e si divide. Perché la vita è una cosa seminata, cresciuta, maturata, raccolta, triturata, impastata: è come pane. Perché noi non ci limitiamo a degustare e consumare il mondo: andiamo percependo dentro di noi che da parte sua anche il mondo, il tempo, ci consuma, ci logora, ci divora. Per ragioni buone o cattive che siano, nessuno resta intero. Noi siamo impasto che si spezza, mollica che si sbriciola, spessore che diminuisce, alimento che viene distribuito. La questione sta nel sapere con quale coscienza, con quale senso, noi viviamo questo ciclo inevitabile. Tutti ci consumiamo, è vero. Ma in quali commerci ci consumiamo? Tutti sentiamo che la vita si spezza e si divide. Ma come rendere questo fatto tragico una forma di affermazione feconda e piena della vita stessa? Per noi cristiani, l'eucaristia è il luogo vitale della decisione su cosa fare della vita. Perché tutte le vite sono pane, sì, ma non tutte sono "eucaristificate", ossia configurate in Cristo e assunte, nella sua sequela, come offerta radicale di sé, come dono, dono vivo, come servizio di amore incondizionato. Tutte le vite conoscono una fine, ma non tutte arrivano fino alla fine del parto di quella condizione cristica che portano in sé impressa. Nell'incontro con il movimento, papa Francesco ha evocato la storia di una coppia che aveva incontrato: «Una volta, in un’Udienza generale, c’era una coppia, sposati da 60 anni, lei ne aveva 18 quando si era sposata e lui 21. Avevano quindi 78 e 81 anni. E io ho domandato: “E adesso, continuate ad amarvi?”. E loro si sono guardati e poi sono venuti da me, con le lacrime negli occhi: “Ancora ci amiamo!”». È di cose come queste che l’eucaristia ci parla quando ci ricorda la richiesta di Gesù: «Fate questo in memoria di me» (1 Cor 11,24).

L'eucaristia è la fonte, il centro e il culmine della nostra vita. Un cristiano non ha, a ben pensarci, programma diverso da questo. Non per niente i così insistevano primi teologi del cristianesimo: "I cristiani che vanno all'eucaristia diventano eucaristicizzati". Assumono cioè la missione di diventare presenze eucaristiche nel mondo. Possiamo infatti dire che ognuno di noi è una conseguenza di questo pasto. Siamo costruiti e generati dall'eucaristia. Perché è dalla persistenza di questo gesto, di questo evento, di questa memoria (che non è solo memoria del passato, ma è presente e futuro), è dalla perseveranza in questa anamnesi di Gesù che siamo veramente generati e ricreati nello Spirito di Gesù. La nostra vita deve dialogare con la duplice mensa eucaristica, fatta di Parola e fatta del Corpo e Sangue del Signore. Per chi voglia vedere, essa non cessa di spalancarci un orizzonte e un futuro. La tavola dell'eucaristia ci fa essere in anticipo quello che ancora non siamo. Ci fa assaporare la pienezza che andiamo cercando. Questa mensa è una macchina per fare fratelli. È una macchina per dissolvere le disuguaglianze, un artigianato di comunione dove i muri, le asimmetrie, le distanze sono tutte vinte. Scrive san Paolo ai Corinzi: «Noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane» (1 Cor 10,17).

Come non potremmo capire nulla della tavola se la riducessimo a una realtà fisica, così non coglieremmo la profondità vitale dell'eucaristia se la guardassimo solo come una realtà rituale. Come la tavola è la concretizzazione della cura fondamentale dell'esistenza, così l'eucaristia. Entrambe, ciascuna a modo proprio, esprimono una risposta positiva ai bisogni più elementari della vita e anche a quelli che il nostro cuore, assetato di amore, esprime. Nell’eucaristia comprendiamo di essere amati. L’evangelista Giovanni lo esplicita con queste parole: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Effettivamente possiamo udire qui risuonare, rivolto a noi: "voglio che tu sia", "voglio che ti senta ascoltato", "voglio che ti delizi di sapori", "voglio per te la pienezza". E, come scrive san Paolo, che tu possa afferrare «quale sia la larghezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che supera ogni conoscenza» (Ef 3,18-19). Nell'eucaristia ognuno di noi è chiamato a sentirsi amatissimo: il Maestro e Signore lava i nostri piedi, e con quale cura li lava! Cura le nostre ferite, e con quale amore le cicatrizza! Con quale premura e speranza quel Buon Samaritano che è Gesù ci mette in cammino! «Ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza». Per questo, a ragione noi ascoltiamo in ogni celebrazione eucaristica: «Beati gli invitati alla cena del Signore».


«Capite quello che ho fatto per voi?»

È risaputo come il Vangelo di Giovanni scelga di raccontare, dell'Ultima Cena, l'episodio della lavanda dei piedi. «Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto» (Gv 13,3-5). Egli è il Maestro, eppure, lavando i piedi, si configura come servo. Gesù testimonia una religione del servizio, dell'amore, della disponibilità a essere gli ultimi, della capacità di dare la vita e nella maniera più concreta, nella maniera più difficile, nella maniera che più ci fa male, che è lo strisciare per terra lavando i piedi gli uni degli altri, baciando i piedi gli uni degli altri, offrendoci di essere gli ultimi nella vita, gli uni verso gli altri, potenziando gli altri e dando loro la vita. E la domanda che egli fa ai Dodici è la stessa che oggi rivolge a noi: «Capite quello che ho fatto per voi?» (Gv 13,12).

È un linguaggio crudo, quello dell'eucaristia, quando ci comanda di mangiare la carne e bere il sangue di Gesù, ma il peggio che ci può accadere è di imprigionare l’eucaristia in una sorta di rituale magico che non sappiamo cogliere, senza chiavi per interpretare ciò che accade sotto i nostri occhi. È necessario che noi cristiani intendiamo bene l'eucaristia: "Questo pane non è solo pane, è il mio corpo che offro per voi; e questo vino non è solo vino, questo vino è la mia vita che voglio consegnare per voi". «Capite quello che ho fatto per voi?». Gesù vuole che noi comprendiamo.

E cosa significa capire l'eucaristia? È capire cosa significa una vita donata. Significa capire che ognuno di noi è chiamato a dare la propria vita, a dire con i gesti, con la propria presenza, con il proprio impegno quotidiano di amore: "Questo che vivo non è solo una cosa, una quantità di tempo, un fatto; quelle che dico non sono solo parole. Questa che investo è la mia vita, vita che do a imitazione di Gesù". Sull'altare, insieme all'offerta che Cristo fa di sé mettiamo la nostra offerta e ci impegniamo ad essere cibo gli uni per gli altri.

È meraviglioso che Gesù abbia scelto il pasto come grande sacramento della sua presenza in mezzo a noi, fino alla fine dei tempi. Una tavola aperta dove il pane è offerto per tutti e dove il vino, che è il suo sangue, è versato per tutti. Avrà capito l'eucaristia un cristiano che non parta di qui per rischiare, per trasformare, per tentare qualcosa di diverso, per rendere il mondo differente e migliore? Potrà essere considerata vera devozione eucaristica una spiritualità fatta di manutenzione e routine? L'eucaristia chiede di più a ognuno di noi. Ci chiede di essere... di diventare quello che noi siamo. Ci chiede di osare, di credere. Gesù prima della Pasqua dice una cosa di grande importanza. Dice: «Ho desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22,15). Il cibo ha a che fare con il desiderio. E qual è il nostro desiderio? Qual è, cioè, la nostra fame? Che cos’è che vogliamo? Cosa portiamo via da qui? L'eucaristia non serve a metterci comodi in poltrona: ci fa calzare sandali da pellegrini. L'eucaristia è per donne e uomini che vanno a impegnarsi nel mondo, infiammati dalla carità di Dio, con l'audacia di costruire modelli alternativi, portando in cuore l'aspettativa di «nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia» (2Pt 3,13). Padre Léon-Dufour S.J. ricordava a questo proposito che l'eucaristia non è un’evasione dalla realtà, o un intermezzo per rinchiuderci in una bolla, indifferenti alla sofferenza del mondo. Ben a ragione diceva: «La messa è essenzialmente contestatrice». Il mistero dell'eucaristia è generativo. Fa sollevare la realtà. Ci dota di una capacità di riconfigurare, di rifare, di reinventare, di riempire di «vino buono», fino all'orlo, le giare vuote, come alle nozze di Cana. Parlando alle Équipes di Notre-Dame nel 2003, papa san Giovanni Paolo II affidava ai partecipanti questo pensiero incisivo: «Le diverse fasi della liturgia eucaristica invitano i coniugi a vivere la loro vita coniugale e familiare sull'esempio di quella di Cristo, che si dona agli uomini per amore. Essi troveranno in questo sacramento l'audacia necessaria per l'accoglienza, il perdono, il dialogo e la comunione dei cuori. Sarà anche un aiuto prezioso per affrontare le inevitabili difficoltà di qualsiasi vita familiare. Possano i membri delle Équipes essere i primi testimoni della grazia che apporta una partecipazione regolare alla vita sacramentale e alla Messa domenicale».

Che Maria, la quale alle nozze di Cana anticipò il destino eucaristico di Gesù, ci accompagni e aiuti a configurare la nostra esistenza intorno all'eucaristia.

Card. José Tolentino de Mendonça