L'arte di scovare la fede nei libri
di Antonio Spadaro S.I.
La recente Lettera di papa Francesco sulla letteratura ha aperto un interessante dibattito estivo tra scrittori e critici. Il tema è una vecchia domanda, che però emerge costantemente nell’ambito cattolico di un Paese come il nostro dove «cattolico» è aggettivo di politica, economia, cultura etc… È possibile parlare di una identità della cosiddetta «critica cattolica»? E di che cosa dovrebbe occuparsi questa «critica cattolica»? Di scrittori cattolici o anche degli «altri»?
Diciamolo subito: se l’aggettivo «cattolico», se costretto a indicare l’ingresso in un luogo a parte e separato – «il cattolicesimo» –, sarebbe veramente mal speso. In effetti non bisogna dimenticare che essere cattolici, o in generale cristiani, significa innanzitutto essere toccati dalla Grazia e questo tocco ha dimensioni aperte, universali, abbraccia il mondo intero e tutta l’esperienza umana.
Ciò non significa direttamente che il fatto di essere cattolici non abbia rilevanza alcuna sul giudizio critico. A mio avviso bisognerebbe valorizzare quella che vorrei definire come «la logica della mappa». Essa implica innanzitutto costruire itinerari di lettura, ipotesi critiche, ascendenze e discendenze tematiche, evidenziare affinità e andare al di là di ciò che appare. Il cattolico che è anche critico ha forse eminentemente proprio il compito di costruire mappe fisiche prima che costruire confini e cartine politiche. La letteratura non è un risiko.
Allora la capacità del cattolico che è critico non sarebbe quella di stabilire l’ortodossia di un testo, ma di mostrare se esso abbia o meno un significato cristiano e quale esso sia. Ci sono opere che non hanno alcuna radice cattolica che possono avere un forte significato cristiano. E, viceversa, opere di autori cristiani o che trattano di temi legati alla fede e alla Chiesa che nulla hanno di veramente cristiano.
In questo senso, dunque, non sarebbe la teologia dogmatica ad essere la prima forma di discorso su Dio ad entrare in questione con la letteratura, ma la teologia dell’esperienza spirituale. E il criterio di giudizio non sarebbe in primis l’ortodossia, ma il discernimento, cioè la sensibilità spirituale. Nella sua Lettera il Papa è chiarissimo in questo senso: «l’atto della lettura è, allora, come un atto di “discernimento”», afferma.
La sapienza, per il cattolico che svolge il mestiere di critico, è dunque quella di cogliere i drammi o le tensioni di significato cristiano. Una «stagione all’inferno» di uno scrittore come Rimbaud può essere ricca di questo significato. Quando lo stesso Rimbaud definisce Cristo «ladro di energie», tocca un nervo scoperto della vita di fede. Così anche il grande scrittore svedese (suicida) Stig Dagerman quando scrive: «Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa».
Il problema, tra l’altro, è la prevalenza nella cultura italiana cattolica del dopoguerra dell’elemento etico, come ha detto lo scrittore Luca Doninelli, forse pensando al grandissimo Giovanni Testori e ai due Greene (Julien e Graham): il padre cattolico è colui che educa il figlio ai valori cattolici; il politico cattolico non ruba; il marito cattolico non tradisce la moglie... Se il cattolicesimo fosse questo, quali romanzi potrebbero nascere? Un cristianesimo fatto di brave persone è una noia mortale: ne sono tutti convinti, da Oscar Wilde a Flannery O’Connor. La cultura cattolica non può ridursi a una versione «minore» di quella non cattolica: fa il rock, ma a volume più basso, fa cinema, ma con più garbo…
L’intenzione dell’autore, poi, è questione di rilievo, ma non può essere l’ultima parola su un testo letterario. L’ispirazione letteraria supera il livello della riflessione e dell’intenzione manifesta, e nel testo ci può essere più di quanto lo scrittore possa avere «in mente» di dire. Avrebbe forse torto lo «scrittore cattolico» Claudel a definire Rimbaud «mistico allo stato selvaggio»? No.
Il fatto che sia un cristiano a svolgere il «mestiere» di critico significa che egli può essere in grado di cogliere – con discernimento nient’affatto ovvio e frutto di una ricca e aperta vita spirituale – la significatività cristiana di un testo. Quella che una volta si chiamava «letteratura dell’assurdo» è in grado di scuotere il lettore che non si pone domande, che non ascolta e non fa silenzio perché già sazio. L’uomo distratto o incapace di guardare alle ombre della propria condizione, sovranamente orgoglioso delle proprie conquiste, è chiuso in sé stesso, incapace di ascoltare la chiamata della Grazia. La letteratura dell’assurdo può lavorare spiritualmente su questo genere di uomo attraverso una suggestione di inquietudine che può rivelarsi alla lunga salvifica. Questo è ciò che qui intendo per «significatività cristiana».
Questo non significa affatto «riabilitare» o «battezzare» autori «miscredenti». Non crediamo che un autore possa essere sottoposto a sessioni di fisioterapia riabilitante: sarebbe realmente fargli violenza, non rispettare i suoi percorsi di fede o le sue «deviazioni» più o meno sofferte. L’operazione sarebbe insomma vana e incongrua. Semmai significa godere di libertà di approccio senza alcuna pretesa di essere esaustivi o di violare i percorsi personali degli autori. È una questione di sapienza e di discernimento, di profondo ascolto, rispettoso ma attivo e coinvolgente all’interno di una visione di fede. La lettura di valore spirituale non è mai passiva: interpella mente e cuore, e coinvolge il lettore in un viaggio interiore che libera dalla passività di una vita distratta. Il papa scrive che la lettura «legge» il lettore e lo immerge in un mondo di significati dal quale è più facile «leggere» ciò che ci è intorno e dentro in modo nuovo, più profondo. La lettura forma uno spirito veramente umano. In tal modo le opere della letteratura non sono «fatti compiuti», distanti dal lettore, ma possibilità di risonanza dell’anima che è, come ha scritto il grande poeta portoghese Pessoa, una «misteriosa orchestra».
Savonarola risponderebbe severo che «tra i versi dei poeti pagani e dei nostri Profeti vi è un’infinita distanza» perché nei primi «c’è nascosto un grande laccio del diavolo». Ma a lui possiamo ribadire con la cattolica Flannery O’ Connor che l’argomento della letteratura è «l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo». E, anzi, che proprio «il diavolo getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace». Anche in letteratura.
Originariamente pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 14 AGOSTO 2024