L’arte contemporanea come teatro di Dio
50 anni della nostra Collezione di Arte Contemporanea
In occasione dei 50 anni della Collezione di Arte Contemporanea dei Musei Vaticani è stato presentato il volume “La Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani 1973-2023. Origini, storia, trasformazioni” , curato per le Edizioni Musei Vaticani da Micol Forti.
In questo testo vengono raccontate le tappe principali della vita della raccolta più giovane delle gallerie pontificie ideata e istituita da san Paolo VI nel 1973. Nel Volume viene data particolare attenzione alle idee e degli insegnamenti di papa Montini, il quale ha posto domande cruciali circa il ruolo e la funzione della cultura (e di un museo) nella società contemporanea.
Prefazione
«La funzione dell’amore è fabbricare lo sconosciuto».
E.E. Cummings
Il senso di stranezza che ancor oggi può suscitare una collezione d’arte contemporanea esposta all’interno di uno degli spazi museali più emblematici dedicati all’arte di altri secoli affonda le sue radici in un dibattito che non è, in fin dei conti, né di ieri né di oggi. Si tratta di un’appassionata conversazione che ha una sua storia, non sempre esente da contrasti e sussulti. Nella tradizione del cristianesimo orientale, l’arte figurativa sacra ha avuto, e mantiene tuttora, una funzione strettamente liturgica. Prima di essere un’epifania di bellezza, l’icona è una rivelazione dell’eterna Verità di Dio. Per questo, se compete al pittore l’aspetto tecnico dell’opera, tutto il suo ordinamento, la sua composizione (diatáxis), non dipende solo da lui. Il pittore materializza un’esperienza spirituale che lo trascende. Accetta di muoversi all’interno di un canone; in questo senso, cancella sé stesso per lasciar vedere. Attenua in tal modo gli indizi della rappresentazione per far emergere la misteriosa categoria della presentificazione. L’icona è trasparenza visibile del vasto invisibile, specchio metafisico, tela di luce che fissa «spettacoli misteriosi e soprannaturali», come recita una massima di Dionigi l’Areopagita. E si crede che l’icona possa costituire una sorta di onda propagatrice del divino. Pavel Florenskij, il filosofo mistico russo che nella prima metà del XX secolo pensò l’arte come luogo dell’autorivelazione di Dio, oppone l’icona alla tradizione pittorica sedimentatasi nel Rinascimento. Per lui, l’arte che conta non è soltanto una finestra attraverso cui lo spirito umano penetra nel mondo rappresentato, ma la sublime inscrizione di una presenza. In una latitudine e un tempo diversi, già Hegel aveva dato come esempio del crepuscolo dell’arte il fatto che più nessuno cade in ginocchio, come in passato, davanti a un dipinto. La verità, però, è che anche l’arte contemporanea, che certamente poggia su altre risorse, ci fa cadere in ginocchio. E funziona anche come una mistagogia.
Il processo di secolarizzazione che da centinaia di anni plasma in modo così incisivo l’Occidente deve essere infatti letto sotto angolature diverse. Se da un lato sembra aver accolto, nelle sue varie modalità, un accelerato «declino ontologico» (per usare l’espressione di George Steiner), dall’altro ha permesso, non di rado, di ricuperare vestigia che il silenzio o l’assenza rendono all’improvviso (più) udibili. Ha schiuso profondità inusitate, come quelle terre sommerse che le grandi tempeste portano, a volte, allo scoperto. Oppure ha contrastato la sedentarietà di certe visioni rigide, ricuperando la condizione metaforica e narrativa della verità.
Nell’impattante ritratto della contemporaneità delineato dal filosofo Charles Taylor nell’ottica del credere e del non credere (A Secular Age, 2007), un dato fondamentale che emerge è che l’orizzonte si è modificato e i modi del credere – come pure del non credere – vengono percepiti tutti allo stesso modo contestabili e fragili. Non viviamo più in un’era di fede omogenea e al riparo da ogni messa in discussione – se mai la si può descrivere in tali termini –, ma neppure siamo più nel tempo in cui l’ateismo pareva rivendicare una sorta di superiorità culturale, come nel periodo dell’Illuminismo e della sua lunga eredità. E Taylor prende posizione contro una narrazione che pretenderebbe di progettare il futuro a partire dalle teorie della «sottrazione», come se esistesse incompatibilità fra la religione e la complessità della modernità con i suoi nuovi immaginari sociali. Ove fosse presente l’una, non ci sarebbe spazio per l’altra. Invece di parlare di sottrazione, egli preferisce parlare dell’attuale fase della storia come di una «occasione per la ricomposizione», che rende possibile l’emergere di nuove forme di nuovi modi di esistenza. C’è veramente tutto un mondo di relazioni da riscoprire e da inventare, ma occorre costruire un percorso di conversazione e dibattito, possibilmente libero dagli schematismi, dai fantasmi e dalle costrizioni precedenti, attivando genuine politiche di reciproco riconoscimento. Ora, questo passa per il privilegiare l’esercizio del dialogo, lo scambio narrativo, l’incontro fra attori non necessariamente sovrapponibili ma capaci di mutuo ascolto.
Nell’enciclica Fratelli tutti, uno dei temi più frequentati è precisamente quello del dialogo. Afferma papa Francesco: «In una società pluralista, il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale» (n. 211). Non si avanza storicamente, né si rilanciano alleanze che siano umanamente significative senza la capacità di riconoscere l’altro, guardando alla diversità non come a un ostacolo ma come a una condizione di dialogo che ci arricchisce. Evitiamo dunque le visioni monolitiche ed escludenti.
All’interno dell’arte contemporanea, i riferimenti a Dio sono certamente diventati più apofatici, più erratici e sincopati, ma, paradossalmente, questa specie di intermittenza li ha anche avvicinati a quello spogliamento che è intrinseco a un’autentica ricerca di Dio. Diceva Eckhart che «la cosa più alta e più vicina che l’uomo può abbandonare è abbandonare Dio a causa di Dio». Dio viene ritrovato in quella sorta di estraneità radicale che l’uomo sperimenta per poterlo accogliere. Non è sicuramente a caso che Hans Urs von Balthasar, forse uno degli ultimi teologi a preoccuparsi di riproporre la forma del cattolicesimo, considerava che questa fosse più facilmente rinvenibile nell’opera di pittori e poeti che nei manuali di teologia. Sapeva, chiaramente, che nell’approccio alle espressioni artistiche non ci si può aspettare una nitidezza sottratta alle variazioni della luce o una enunciazione senza incertezze dell’assoluto: alludeva precisamente al percorso artistico fatto di interstizi; al suo cammino angusto tra abissi; alla sua scienza scritta sull’acqua. Tuttavia, anche se i piani poetico-stilistici e iconologico-catechetici non sempre coincidono in modo armonico, la bellezza contemporanea non manca di enunciare il divino. E lo fa con il suo modo imprevedibile di operare, senza tentare di circoscriverlo, generando scambi e illuminazioni invece di concetti, scrivendo per cancellare, cancellando per costruire. Come il ladro notturno, il cui arrivo Gesù equipara, nella parabola evangelica, alla venuta del Regno di Dio perché, apparendo in modo nascosto, con un’intrusione che certamente sovverte il reale, egli ci pone di fronte alla verità ultima. Per questo, non dubitiamone, ciò che nell’arte contemporanea definiremmo solo umano, o troppo umano, non manca di svelare il miracolo del sacro. Anche quando la sua bellezza è frantumata, discontinua, informe, essa ci offre una accessibilità al mistero.
Disse papa Paolo VI agli artisti contemporanei, in un discorso che aprì una nuova stagione nel rapporto della Chiesa con il mondo artistico, da cui nacque la Collezione d’arte moderna e contemporanea dei Musei Vaticani: «Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione […] voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità. […] E se noi mancassimo del vostro ausilio, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto».
Card. José Tolentino de Mendonça