La cultura del dialogo come servizio della Chiesa per aprire la società al Vangelo
Uno degli elogi più straordinari mai fatti alla città di Gerusalemme è quello che appare nel Salmo 122,3: «Gerusalemme è costruita / come città unita e compatta». Forse in questa immagine si allude alle mura restaurate di Gerusalemme, che in modo visibile la tenevano compatta all’interno di «una frontiera protettrice e di un filtro sacro», istituendola come emblema della coesione. Anche in ambito cristiano, inizialmente la simbolica di Gerusalemme mutuò molto da questa semantica. La Chiesa di Gerusalemme non ebbe dubbi quanto al proprio ruolo in quanto Chiesa-madre e garante della coesione del movimento cristiano delle origini. Non è a caso che, quando ad Antiochia scoppiò il conflitto che opponeva i sostenitori della circoncisione ai fautori del passaggio diretto dei pagani al battesimo, la decisione fu di «salire a «Gerusalemme» per discernere là una soluzione (At 15,1-2). Ora, questo ritratto di Gerusalemme non potrebbe essere più diametralmente opposto a quello che il narratore lucano ci traccia di Atene al tempo dell’arrivo di Paolo. Mentre Gerusalemme è descritta con il paradigma della cittadella unitaria, in Atene si riscontra un modello dispersivo, molteplice, quello di una realtà che accoglie e dialoga con componenti eterogenee, che dall’apertura al diverso trae vantaggio ed energia. Quando vi sbarca l’apostolo, Atene è una un centro culturale e religioso di prima grandezza. Ma il religioso si trovava disseminato su una geografia di convinzioni e pratiche plurime, rispetto alle quali il monoteista Paolo si differenzia nettamente, tanto sotto il profilo delle idee come sotto quello delle emozioni (cfr. At 17,16). Su questo, Paolo è più vicino a Gerusalemme che ad Atene. Tuttavia, al contrario di quanto si sarebbe potuto prevedere, la sua differenziazione radicale non si erge come ostacolo, piuttosto rafforza in lui l’urgenza del dialogo e dell’incontro. La modalità della strategia relazionale posta in essere da Paolo si fa esemplare, poiché parte da tre aspetti che rimangono pieni di attualità per noi, rappresentando una sorta di metodo per la cultura del dialogo:
1) l’apostolo vive rapportato prioritariamente a Cristo e nella consapevolezza che gli fa dire: «Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16);
2) secondo, il riconoscimento dell’alterità dell’uomo e delle culture non come un ostacolo ma come una possibilità;
3) terzo, comprendere che il dialogo non è un automatismo, bensì uno sforzo creativo di tradurre il messaggio cristiano in immagini culturalmente leggibili, facendolo diventare annunzio credibile. E che cosa fa l’apostolo? Paolo percorre Atene e si arrischia a dialogare con la cultura.
Cristianesimo e spazio pubblico
Ad Atene c’erano «monumenti sacri» a profusione, tra cui tabernacoli, templi, santuari delle origini più diverse. In mezzo a tanta sovrabbondanza, Paolo scopre un altare con l’iscrizione “Al dio ignoto” (Agnōstō Theō) (At 17,23). Davvero c’era un altare così denominato? Le opinioni al riguardo sono varie e con sfumature curiose, e vanno da chi testimonia di aver visto un altare del tutto identico, a chi vi vede piuttosto un’allusione di natura simbolica. Probabilmente, il vero altare allo Agnōstō Theō che Paolo aveva visto era il mondo della letteratura e del pensiero greco, in cui troviamo preghiere come quelle di Omero («Ascoltami, Signore, il cui nome ignoro», Odissea, V, 455), come quelle di Euripide («Oh, carro della terra che sulla terra hai sede, chi mai tu sia, difficile a conoscersi», Troiane, 884-887), o come quella di Platone nel Cratilo, quando dice (400 d2-4) che ciò che più conviene a noi esseri razionali è riconoscere che «degli dèi nulla sappiamo, né di loro, né dei loro nomi». Nella dedica “Al dio ignoto”, dunque, non dobbiamo vedere unicamente una formula materiale, ma anche il ritratto profondo dell’“anima umana antica” con cui Paolo intende dialogare e che egli non esita a discernere ferita della sete di senso, in un grido al Dio sconosciuto.
È interessante rilevare un dettaglio del brano degli Atti degli Apostoli che ci ricorda che Paolo «discorreva nella sinagoga con i Giudei e con le persone pie; e sulla piazza, ogni giorno, con quelli che vi si trovavano» (At 17,17). Paolo non resta chiuso nella sinagoga e non riduce il compito dell’evangelizzazione all’incontro con le persone pie. Sposta la geografia del dialogo. Rende il cristianesimo un argomento dello spazio pubblico. Ma per renderlo operativo si sforza di realizzare una predicazione che sia più trasversale e adatta a un pubblico culturalmente diversificato. Con Paolo il cristianesimo acquista così l’ampiezza e l’universalismo che Gesù stesso ci lascia come mandato (Mt 28,19-20): «Andate e ammaestrate tutte le nazioni – sottolinea bene “tutte le nazioni” –, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Paolo capisce che il futuro del cristianesimo è in gioco anche nella capacità e nell’energia di tradurre culturalmente il messaggio di Gesù. Ed è disposto a conversare con tutti – con portatori di domande (i filosofi stoici ed epicurei), con esponenti del mondo che crede nella democrazia –, nella forza degli argomenti e nello scambio di idee.
Ciò che Paolo afferma riguardo alla conoscenza di Dio sulla piazza non è diverso da quanto scrive nella sua Lettera ai Romani. La differenza tra Romani e Atti 17 è essenzialmente di stile: mentre nell’epistola Paolo si rivolge a un uditorio di cristiani, in grado di cogliere la tipica grammatica cristiana, nel discorso di Atene Paolo si misura con una predicazione più trasversale, si adatta a un pubblico culturalmente eterogeneo e fa un discorso ellenistico sulla vera conoscenza di Dio. Il contenuto della sua teologia è identico; la forma deve invece essere strategicamente differenziata.
E, per presentare la novità del messaggio cristiano, Paolo ricorre senza paura al dialogo con la cultura greca. Perché questa opzione di allargare la sfera del discorso a un campo extra-teologico? Non si tratta certamente di una deriva ornamentale, bensì di una scelta cosciente che possiamo così riassumere: l’apostolo si avvicina alla poesia pagana per rendere credibile il suo discorso religioso cristiano, liberandolo dal pericolo della autoreferenzialità, e rafforzandone la credibilità nella pratica dell’incontro con altri saperi e con altre visioni.
In At 17,28, l’apostolo fa dapprima una citazione implicita di Epimenide di Creta: «Tu vivi e rimani per sempre / Perché in te noi viviamo, ci muoviamo e abbiamo l’essere». Subito dopo, Paolo allude ai poeti in generale («Come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti»), per citarne uno in particolare, Arato. Il verso citato da Paolo è il seguente: «Perché di lui anche noi siamo stirpe» (si intenda: stirpe divina). Che cosa significa, per Paolo, citare questa poesia? Senz’altro significa che nella cultura del suo tempo, nella letteratura pagana in cui anche Paolo fu, in parte, formato, egli vede la possibilità di «un certo riconoscimento» di Dio. E significa soprattutto che Paolo trova nella cultura un vero locus che concretizza il suo desiderio di stabilire un intenso dialogo missionario, scoprendo le potenzialità che il dialogo offre all’agire di Dio nella storia.
Perché per Paolo è evidente che la sorgente del dialogo è Gesù Cristo. Quando pensa cosa sia la sua esistenza personale e l’esistenza dell’uomo nel mondo, Paolo non può più dissociarla dalla rivelazione pasquale di Cristo. Egli scopre che è per Cristo che noi siamo, nel Padre e nello Spirito. Con la sua morte e risurrezione, Cristo ci introduce in una relazione nuova e dinamica con Dio. Abbiamo accesso alla sua intimità. È interessante la parola prosagogé (accesso), che viene citata tanto in Rm 5,2 come in Ef 3,12. L’etimologia di questo termine è legata al rituale che, nelle corti, portava gli intimi del re ad avere con lui una prossimità diretta, un dialogo che, chiaramente, la stragrande maggioranza dei sudditi non aveva. Cristo è colui che ci dà simile accesso all’intimità del Padre, che ci mette in dialogo con il Padre. Ed è in questa luce che l’esistenza umana può davvero essere qualificata. Non approfondiremo la nostra capacità di dialogo nella Chiesa e nel mondo se prima, come pastori, non avremo approfondito il dialogo con Cristo. Paolo è uno straordinario missionario della fede soltanto perché è anche un mistico che non immaginava possibile la vita – e non solo il suo destino, ma la vita di ogni giorno – senza Cristo. Per questo dice: «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21). E ancora: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato sé stesso per me» (Gal 2,20).
Il dovere del dialogo
Il decreto conciliare Christus Dominus sulla missione pastorale dei vescovi nella Chiesa ci chiarisce bene l’importanza del dialogo: «E poiché la Chiesa non può non stabilire un colloquio con l’umana società in seno alla quale vive, incombe in primo luogo ai vescovi il dovere di andare agli uomini e di sollecitare e promuovere un dialogo con essi» (n. 13). Mi permettano due sottolineature: «La Chiesa non può non stabilire un colloquio con l’umana società» e: «Incombe in primo luogo ai vescovi il dovere di promuovere un dialogo». Infatti la Chiesa è chiamata a essere «sale della terra» (Mt 5,13) e «luce del mondo». La luce non può restare nascosta in una narcisistica o impaurita tentazione di autoreferenzialità. E se il sale perde il sapore, «a null’altro serve che ad essere gettato via». Quando vediamo la Chiesa, in tante situazioni e geografie, essere gettata via dagli uomini, dobbiamo fare un’autocritica e domandarci se stiamo veramente custodendo il sapore autentico dell’esperienza cristiana. Il vescovo non può permettersi di vivere in una capsula, nella solitudine di un potere che non diventa generatività, sapore di vangelo e servizio. La Chiesa ha bisogno invece che lui sia il primo attore e promotore del dialogo con gli uomini. E così conclude Christus Dominus: «Ma perché in questi dialoghi di salvezza la verità vada sempre unita con la carità, e l’intelligenza con l’amore, è necessario non solo che essi si svolgano con chiarezza di linguaggio, con umiltà e con mitezza, ma anche che in essi ad una doverosa prudenza si accompagni una vicendevole fiducia; perché tale fiducia, favorendo l’amicizia, è destinata ad unire gli animi» (n. 13). Il dialogo, anche per un vescovo, costituisce un umile e mai concluso apprendistato fatto di ascolto, che non si pratica solo attraverso l’udito esteriore ma con i sensi del cuore, coltivato come attitudine, inclinazione all’altro, disponibilità ad accogliere il detto e il non detto, l’entusiasmo della storia e il suo contrario, il suo dolore. Un lento percorso fatto di disponibilità paziente, effettivo riconoscimento, riconciliazione, incontro e amicizia. Non possiamo dimenticare che oggi una delle crisi più gravi che viviamo è una crisi di fiducia. È volato in pezzi il patto di fiducia che la gente aveva nelle istituzioni, Chiesa compresa. Come rilanciare e ricostruire la fiducia, se non accettando di percorrere la via sincera del dialogo?
L’urgenza e la natura del dialogo
Rimangono profetiche (e rimangono anche un programma da realizzare) le parole di papa San Paolo VI in Ecclesiam Suam (1964). In apertura dell’enciclica, Montini dice che vede tre sfide fondamentali, ed è impossibile non vedere la profonda sintonia con Papa Francesco e tutto il suo magistero:
1. Questa è l’ora in cui la Chiesa deve approfondire la coscienza di sé stessa.
2. Dal confronto dell’immagine della Chiesa quale Cristo la vide, volle e amò, come sua Sposa santa ed immacolata, e il volto reale, quale oggi la Chiesa presenta, deriva un bisogno quasi impaziente di rinnovamento, di correggere i difetti dei propri membri e di farli tendere a maggior perfezione.
3. L’urgenza del dialogo fra la Chiesa e il mondo moderno, «un mondo che non una, ma cento forme di possibili contatti offre alla Chiesa, aperti e facili alcuni, delicati e complicati altri, ostili e refrattari ad amico colloquio purtroppo oggi moltissimi».
San Paolo VI ribadisce che il dialogo è nell’intenzione stessa di Dio. «La storia della salvezza narra appunto questo lungo e vario dialogo che parte da Dio, e intesse con l’uomo varia e mirabile conversazione. È in questa conversazione di Cristo fra gli uomini che Dio lascia capire qualche cosa di Sé... e dice finalmente come vuol essere conosciuto: Amore Egli è» (n. 72). «Il dialogo della salvezza non obbligò fisicamente alcuno ad accoglierlo; fu una formidabile domanda d'amore... sempre nel rispetto della libertà personale e civile» (n. 77). E «fu reso possibile a tutti; a tutti senza discriminazione» (n. 78).
Il Papa parla poi della forma del dialogo (n. 83). Le sue caratteristiche sono le seguenti.
· La chiarezza: il dialogo presuppone ed esige comprensibilità; e basta questa sua iniziale esigenza per sollecitare la nostra premura apostolica a rivedere ogni forma del nostro linguaggio.
· Altro carattere è poi la mitezza, quella che Cristo ci propose di imparare da Lui stesso: Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore.
· La sua autorità è intrinseca per la verità che espone, per la carità che diffonde, per l’esempio che propone; non è comando, non è imposizione.
· La fiducia, tanto nella virtù della parola stessa come nell’atteggiamento di accoglienza da parte dell’interlocutore: promuove la confidenza e l’amicizia.
E, quanto ai destinatari del dialogo apostolico, Ecclesiam Suam parla di quattro cerchi:
· Primo cerchio: tutto ciò che è umano. «Tutto ciò ch’è umano ci riguarda. Noi abbiamo in comune con tutta l’umanità la natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni, con tutti i suoi problemi. Siamo pronti a condividere questa universalità». (n. 101)
· Secondo cerchio: i credenti in Dio. Vogliamo affermare «il nostro rispettoso riconoscimento dei valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane, vogliamo con esse promuovere e difendere gli ideali, che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura, della beneficenza sociale e dell’ordine civile». (n. 112)
· Terzo cerchio: i Cristiani Fratelli separati. «Volentieri facciamo nostro il principio: mettiamo in evidenza anzitutto ciò che ci è comune, prima di notare ciò che ci divide. È questo un tema buono e fecondo per il nostro dialogo. Diremo di più: che su tanti punti differenziali, relativi alla tradizione, alla spiritualità, alle leggi canoniche, al culto, Noi siamo disposti a studiare […] la Chiesa cattolica non cesserà di rendersi idonea e degna, nella preghiera e nella penitenza, dell’auspicata riconciliazione. (n. 113)
· Il dialogo nell’interno della Chiesa cattolica. «Quanto lo vorremmo godere in pienezza di fede, di carità, di opere questo domestico dialogo; quanto lo vorremmo intenso e familiare! quanto sensibile a tutte le verità, a tutte le virtù, a tutte le realtà del nostro patrimonio dottrinale e spirituale! quanto sincero e commosso nella sua genuina spiritualità! quanto pronto a raccogliere le voci molteplici del mondo contemporaneo! quanto capace di rendere i cattolici uomini veramente buoni, uomini saggi, uomini liberi, uomini sereni e forti!». (n. 117)
La verità va esposta delicatamente
Sul tema che ci raduna per questa riflessione, «La cultura del dialogo come servizio della Chiesa per aprire la società al Vangelo», il brevissimo pontificato del beato Giovanni Paolo I fu straordinariamente illuminante. Per esempio, l’espressione «il Papa del sorriso», che si farà poi ricorrente per evocare quel Papa, si spiega non solo come esercizio di bonarietà, ma soprattutto come coscienza che la verità va esposta delicatamente («suaviter»), secondo il modello proposto da sant’Agostino. La simpatia di Luciani è un metodo spirituale deliberato, praticato con intelligenza perseverante, credibilmente assunto come forma di ospitalità, di partecipazione, di risposta responsabile all’altro, di genuina evangelizzazione. Per riprendere le parole di papa Francesco, essa si distanzia dal «moralismo che giudica» e si fa prossima alla «misericordia che abbraccia».
Giovanni Paolo I ha la lucida coscienza che una delle sfide fondamentali lanciata alla Chiesa contemporanea è di natura culturale. Quando scrive «L’epoca attuale, religiosamente debole, va presa con metodo adatto», sta emettendo una diagnosi e al tempo stesso arrischiando vie nuove, con freschezza, giovinezza e audacia. È perciò una responsabilità gravissima della Chiesa riattivare processi culturali che sfocino nella creazione di chiavi di lettura consistenti, condivisibili e vitali.
In questo senso, il libro che ha scritto quando era arcivescovo di Venezia e che dopo, da Papa, diventa il suo vero testamento spirituale, Illustrissimi, vale la pena di essere meditato. Come sappiamo, quel libro mette insieme 40 lettere indirizzate a personaggi storici e letterari. Perfino a Pinocchio ha dedicato una lettera. Ha ricevuto delle critiche. «È vescovo, è cardinale – è stato detto –; si è sbracciato a scrivere lettere in tutte le direzioni» invece di concentrarsi su Gesù. Le critiche sono ingiuste perché Illustrissimi è un testo cristianissimo, sostenuto da passi biblici decisivi, ricamato di citazioni dei Padri della Chiesa, di filosofi e maestri spirituali cristiani. Ma Luciani accetta di comunicare a partire da un pulpito e da un formato non convenzionali. Accetta di conversare non solo all’interno del recinto del sacro, ma sulla pubblica piazza, nel territorio aperto della cultura, reputando che la conversazione, questa sorta di sermo humilis accessibile a tutti, «è una gran bella cosa per la nostra vita di poveri uomini». Accetta che l’arte dell'incontro si intessa nella capacità di costruire intersezioni, di mettere in relazione mondi e tempi diversi, di farci contemporanei.
Da magisteri monumentali come quelli di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI abbiamo ricevuto non solo conferma del ruolo della cultura del dialogo per la missione della Chiesa, ma esempi di creatività e profezia. Scegliendo soltanto un esempio, ricordo la creazione da parte di Giovanni Paolo II, nell’ottobre del 1986, dell’incontro interreligioso di preghiera di Assisi. O la lungimiranza di Papa Benedetto nel dialogo tra Fede e Scienza che gli fa lasciare scritto nel suo testamento: «È nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni, e dunque la sua specificità».
La cultura del dialogo nel magistero di Papa Francesco
Nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (2013), il testo considerato programmatico del suo pontificato, Papa Francesco usa 56 volte la parola «dialogo». Alcuni esempi:
· «È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città. Non bisogna dimenticare che la città è un ambito multiculturale... Svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte pratiche di segregazione e di violenza. La Chiesa è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile». (n. 74)
· «Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo». (n. 142)
· «Esiste anche una tensione bipolare tra l’idea e la realtà. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà». (n. 231)
· «L’evangelizzazione implica anche un cammino di dialogo. Per la Chiesa, in questo tempo ci sono in modo particolare tre ambiti di dialogo nei quali deve essere presente, per adempiere un servizio in favore del pieno sviluppo dell’essere umano e perseguire il bene comune: il dialogo con gli Stati, con la società – che comprende il dialogo con le culture e le scienze – e quello con altri credenti che non fanno parte della Chiesa cattolica». (n. 238)
Nella Laudato si’ (2015) il termine «dialogo» compare 23 volte e richiede a noi tutti una vera e urgente conversione:
· «In questa Enciclica, mi propongo specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune». (n. 3)
· «Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta». (n. 14)
· «La scienza e la religione, che forniscono approcci diversi alla realtà, possono entrare in un dialogo intenso e produttivo per entrambe». (n. 62)
· «Proviamo ora a delineare dei grandi percorsi di dialogo che ci aiutino ad uscire dalla spirale di autodistruzione in cui stiamo affondando». (n. 163)
· «La maggior parte degli abitanti del pianeta si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità». (n. 201)
Nella Fratelli tutti (2020), un magnifico insegnamento sul «dialogo paziente e fiducioso» che sta alla base della fratellanza, sono 45 i passaggi, ma c’è un intero capitolo che gli è dedicato, il sesto («Dialogo e amicizia sociale»). Papa Francesco lo apre così:
· «Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che serve il dialogo. Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto». (n. 198)
Ci avverte del pericolo dei monologhi. Infatti due monologhi non fanno un dialogo.
· «Spesso si confonde il dialogo con qualcosa di molto diverso: un febbrile scambio di opinioni nelle reti sociali, molte volte orientato da un’informazione mediatica non sempre affidabile. Sono solo monologhi che procedono paralleli, forse imponendosi all’attenzione degli altri per i loro toni alti e aggressivi. Ma i monologhi non impegnano nessuno, a tal punto che i loro contenuti non di rado sono opportunistici e contraddittori». (n. 200)
Ci invita ad andare oltre i consensi occasionali e costudire insieme i valori mai negoziabili:
· «In una società pluralista, il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale... Anche quando li abbiamo riconosciuti e assunti grazie al dialogo e al consenso, vediamo che tali valori di base vanno al di là di ogni consenso, li riconosciamo come valori che trascendono i nostri contesti e mai negoziabili». (n. 211)
Ci invita alla gentilezza, che pare una cosa semplice, ma è un miracolo piuttosto raro (anche tra i vescovi!):
· «Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza». (n 224)
Avremo opportunità, nel tempo di dialogo, di declinare questioni più pratiche. Ma voglio concludere dicendo che, se c’è un profilo di vescovo necessario al mondo contemporaneo, è quello capace del magistero della gentilezza e del dialogo. Troppo spesso abbiamo concepito difensivamente il rapporto tra fede e cultura, come quello di un’egemonia, di un diritto di controllo e sanzione in nome di una verità di fede semplificata a verità culturale. Recuperare la dinamica generativa e non meccanicamente giudiziale di questo rapporto, restaurare la maternità della Chiesa, significa accogliere incondizionatamente non solo la reciprocità dialogica ma la asimmetria del servizio, dell’iniziativa gratuita ed eventualmente non corrisposta propria dell’amore. Discernimento, ascolto, proposta, sono tutti momenti essenziali del dialogo, che per essere fecondi devono però essere coniugati con una più fondamentale disposizione di amore, in una incondizionata volontà di incontro, secondo il modello di Gesù di Nazaret.
Card. José Tolentino de Mendonça