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La grammatica del credere: a proposito di San Newman

notizie ‒ 29 settembre 2025

 

Julia Kristeva per la Rivista Vita e Pensiero ©

 

Nell'Apologia pro vita sua (1864) John Henry Newman ricorda il «grande cambiamento» che «si produsse nei suoi pensieri all'età di quindici anni. Da allora, più che un'«impronta o un'«impressione», il dogma cristiano divenne per lui una «certezza assoluta»: «Ancora oggi (49 anni dopo) ne sono più sicuro che di avere piedi e mani». Intensa concentrazione, isolamento totale dalla «realtà dei fenomeni materiali» e null'altro che «due esseri» «la cui evidenza» è tanto «luminosa quanto assoluta»: «Myself and my Creator». La scena è ambientata nel 1816. La banca del padre fallisce, l'anno successivo il quindicenne non può raggiungere la famiglia per le vacanze estive e rimane in collegio a Ealing: separato dai suoi, ma circondato dall'attenta comprensione del reverendo Walter Mayers, protestante evangelico. L'autore dell'Apologia avverte subito i suoi lettori: non ci dirà tutto. «Secretum meum mihi». Si potrebbe essere tentati di psicoanalizzare, come si è fatto per Kierkegaard, lo stato allucinatorio e il super-io esigente che stanno dietro alla conversione del giovane scosso dalla bancarotta del padre. Per prima cosa vorrei parlare di come Newman pensa quest'evidenza e questa certezza della fede: autentica battaglia contro il razionalismo in senso stretto, una sorta di dilatatio della Ragione, avrebbe detto Riccardo di San Vittore nel XII secolo. Poi affronterò la mia pratica e la mia teoria della psicoanalisi, attente a quello che io chiamo il "bisogno di credere" che sta dietro al "desiderio di sapere" e che nell'esperienza del "credere" scoprono una specifica dimensione psichica: l'affetto e più precisamente l'affetto filiale padre-figlio come costante antropologica universale e pre-religiosa.

L'adolescente prova dunque la realtà assoluta – la «certezza» – di quella che chiamerò la co-presenza tra l'Io e il suo Creatore. Si tratta di una «sensazione»? Il termine è troppo soggettivo, «derisorio» dice Newman, «a mocquery», nei confronti dell'inevitabile «impronta» imposta all'Io da una realtà fuori-dell'Io. Si tratta forse di una realtà impersonale? Le parole sono a tal punto impotenti a dar nome all'iscrizione di tale evidenza assoluta, che il teologo ricorrerà ai paragoni e alle metafore: ispirate prima al corpo («più sicuro che di avere piedi e mani») e infine... al fatto («the fact», dice) del padre antropologico. Come l'amore filiale non esiste senza il fatto (the fact) del padre umano, la pietà non esiste se l'Essere assoluto non è un «fact». A voler troppo convincere, la logica non basta: Newman vuole difendere il dogma della trascendenza del Creatore di cui subisce l'impronta e tenta di descrivere quel «subìto», etimologicamente quel "patire", quella "passione". Ma il termine "passione" non sarà formulato qui, più tardi il teologo dirà: «Giovane / Non vedevo cosa voleva dire "Amare Dio"». Tuttavia l'analogia che tesse in quel paragrafo suggerisce piuttosto (e suo malgrado) che Dio sia una parabola invisibile della paternità (della funzione paterna umana) come oggetto del desiderio del figlio. Senza approfondire il tenore affettivo di questa constatazione involontaria, Newman preferisce dettagliare logicamente una serie di atti cognitivi che chiama atti di coscienza e che costellano il processo eterogeneo del credere: «Ombre e immagini (ancora una metafora) verso la verità» (sarà il motto inciso sul suo memoriale a Edgbasten) e una certezza razionale che ne scaturisce infine: «So che so che lo so...». L'affermazione termina con i puntini di sospensione, come per evocare un processo di sapere infinito (come il pi greco di Leibniz). Dall'intuizione anteriore alla razionalità (parlerà della phronesis aristotelica, introdurrà il concetto di senso illativo ecc.) fino alla razionalità enunciata dal Credo: Newman conserva la luminosità segreta («soprannaturale», dice) della sua fede, che descriverà anche come un «inward sense» (senso interiore), o ancora come «cor» (il cuore di sant'Agostino): «Cor ad cor loquitur» (sarà il suo motto di cardinale). Il termine "affetto", che san Bernardo di Chiaravalle aveva ripreso dalla Scolastica per farne un concetto chiave della sua lettura del Cantico dei Cantici, non sembra venire alla penna di Newman. Però s'impone, se si vuole afferrare quella zona ampia e fragile che Newman chiama la «coscienza» dell'esperienza, o (più tardi) «assenso alle immagini e alle cose» (da distinguere dall'«assenso ai concetti»). Una "coscienza" che non ha ancora il rigore di un atto cognitivo razionale, ma che evoca la «sfera pre-predicativa» della fenomenologia husserliana, o il senso "semiotico" (anteriore e sottostante alla sintassi che garantisce il significato "simbolico") nella mia concezione della soggettività come un processo di "significato". L'eterogeneità di questi atti psichici, costituendo il legame chiamato Credo tra me e il Creatore, richiama subito regimi di parola che non riducono «le ombre e le immagini» ai saperi dell'«io so» concettuale. La nostra cultura li definisce "estetici": le arti, la musica, la pittura e, per Newman, la poesia, in presa diretta su quei "germi" di pensiero suggeriti dalle metafore delle «ombre» e delle «immagini».

A partire da quella certezza dell'unione tra l'Io e il Padre/Creatore, il Credo secondo Newman cesserà di essere un'«impronta», per svilupparsi come un legame intersoggettivo e amoroso. Sarà proprio questa rivelazione amorosa a condurlo dai padri bizantini e dal protestantesimo alla Chiesa cattolica. Seguiamo il movimento in tre tempi della soggettivazione amorosa.

1) La concezione della fede come impronta (éikon) del Creatore nel credente, della sua icona e della sua economia è stata sviluppata nel IX secolo, in particolare dal patriarca Niceforo, nel corso del dibattito bizantino sull'autorizzazione delle raffigurazioni di Dio. Insistendo sulla deposizione/ricezione/iscrizione del patto con il Creatore, quell'economia rischiava di introvertire il credente in ciò che Newman chiama «unworldnesness»: ritiro dal mondo, addirittura fonte di «disperazione» nel cristianesimo evangelico.

2) Al contrario, grazie all'analogia subito stabilita da Newman tra il Creatore e il «fatto» della paternità umana vivente, per lui il Credo si chiarisce in tutt'altro modo. L'impronta diventa una grazia che non è solo attribuita per analogia, ma è impiantata da e per l'amore del Padre. Ben più che una ricezione o un'applicazione (éikon-economia) della Legge biblica. E non più solo una partecipazione al Bene generale dell'Essere Bene (il Bonum neutro, alla maniera filosofica o tomista). La fede sarà la «certezza» di una co-presenza con il Bonum singolare (dirà Maurice Blondel). Intendiamo: una personalizzazione duale del legame. Io attraverso Lui perché Lui per Me. È un'iniziativa del credente, nel senso che lui non si accontenta di imitare, ma partecipa. Il dono amoroso sarà inteso come gratificazione e al tempo stesso come prova: un conflitto permanente, nello scollamento tra chiamata e risposta. E tuttavia un'identificazione totale riunisce il Figlio con il Padre in un solo Spirito. Newman non esplicita il carattere affettivo di questo movimento: si limita a tracciare la dinamica eterogenea e l'unità logica del processo. Tuttavia il suo modo d'intendere la co-presenza Io/Creatore fa del credente il Tempio dello Spirito. Abolisce la separazione tra il «giusto» e l'«eletto» e prende in considerazione un nuovo regime della soggettività nella fede: quello del rinnovamento («la crescita è l'unica prova della vita...», Newman ama citare Thomas Scott), implicando che la verità della Fede non è «incantesimo», ma libertà come conquista e dramma: perché «il nostro cuore è senza riposo».

3) La decisione di credere include i «poveri e gli illetterati»: gli stessi che «sentono» (ancora questa certezza della percezione pre-razionale). L'unificazione dell'Io con il suo Creatore si «realizza» («realize», si compie) nell'universalità più ampia, quella dell'umanesimo cristiano che associa il genere umano a quel «per modum unius» vissuto come legame d'amore. Sarà questo il senso ultimo della santità che si realizza, secondo Newman, laddove esiste la «certezza indefettibile» (Grammatica dell'assenso) della co-presenza tra l'Io e il mio Creatore. «La santità, ecco il grande scopo. Dev'esserci una lotta e una prova». Fondandosi sulla certezza sensibile - passando attraverso la coscienza che tale co-presenza è una tensione e inglobando la certezza che tutti gli uomini partecipano di tale evidenza, lo sappiano o meno. Benché Newman non abbia rivendicato il termine "mistico", l'assemblaggio tra assenso e immaginazione, da una parte, e grammatica dell'inferenza-giustificazione, dall'altra, arriva a integrare l'esperienza mistica nel consolidamento di un dogma cattolico che gli sembra dover essere delucidato e protetto. Tale cammino, che porta il protestante Newman al cattolicesimo e che non è sfuggito a un Henri de Lubac, lo conduce a un'altra certezza, che non ha formulato esplicitamente ma che riassumerei così: l'essenza dell'ethos cristiano è mistica. Alcuni hanno fatto della mistica una chiave per aprire le porte della fede a nuovi mondi: Meister Eckhart prepara il vocabolario della filosofia europea, mentre Teresa d'Avila avvia la transizione barocca al secolo dei Lumi. Newman, da parte sua, protegge il cattolicesimo tanto dal moralismo protestante quanto dal criticismo razionalista e rinsalda i fondamentali del cattolicesimo attraverso una paziente descrizione del legame Padre/Figlio che sta dietro al Verbo, dimostrando che quell'esperienza – che solo surrettiziamente chiama «amorosa» (nella Grammatica dell'assenso, ad esempio) – è il fondamento ultimo del senso etico. Nella mistica riconosce il fermento necessario a rifondare il dogma, rendendolo più complesso e dinamico.

La psicoanalisi al crocevia tra credere e sapere
Spero di sorprendervi affermando che, dopo Freud e Lacan, la psicoanalisi si trova oggi al crocevia dove il bisogno di credere si accosta al desiderio di sapere. Quasi sempre si ricorda di Freud la diagnosi della religione come illusione, dimenticando non solo che l'inventore dell'inconscio promette a quell'illusione un futuro (forse?) «senza fine», ma anche che la sua opera complessa realizza un'autentica archeologia della funzione paterna: da Edipo e Laio - passando per l'omicidio del Padre come fondamento del fatto religioso in Totem e tabù - all'assunzione intellettuale di quel sentimento nell'ebraismo secondo Mosè e il monoteismo. Da qualche anno la ricerca psicoanalitica svela un Freud ancora più segreto, che cerca di approfondire le scoperte del fondatore, di fronte al ritorno della spiritualità e nel contesto globalizzato degli scontri e dei conflitti tra religioni.

Cominciamo con il ricordare due fonti del "credere" che precedono l'ascolto dello psicoanalista che si confronta con la fede: la fonte biblica ed evangelica e quella sanscrita. Prendiamo il Salmo 116,10: «He' emanti ki adaber...»; «Avevo fede anche quando dicevo / "Sono davvero sventurato" / Io che dicevo nel mio tormento: "Ogni uomo è mendace!"». San Paolo, nella Seconda Lettera ai Corinzi 4,13, riprende, echeggiando il Salmo 116: «Ho creduto e ho parlato». Non è forse quello che fa Newman, che l'aveva provato, nell'impronta del dogma e poi nell'esperienza personale dell'unione Io/Padre, prima di ricercarne «la grammatica dell'assenso»? Poiché il salmista evoca, qualche verso prima, l'ascolto misericordioso di Dio, Altro amante, e riunendo le diverse interpretazioni dell'ebraico "ki" che significa "e", "perché" e "malgrado", intendo così il versetto: «Poiché Tu mi parli e mi ascolti, io credo e parlo, malgrado il disgustoso». Il contesto biblico del Salmo è dunque molto esplicito: associa la fede («emouna», dove si sente la radice "amen", fede o credo) che sovrintende all'atto di parola (all'enunciazione) a enunciati precisi, mediocri, e in questo caso deludenti. Benché nessuna delle mie parole sia degna di fede, parlo perché qualcuno mi ha parlato e ascoltato. È nell'atto di parlarsi che credo: è FEDE l'investimento dell'atto di parlarSI. La fede sostiene l'atto dell'enunciazione: detiene, in questo senso, la chiave dell'atto stesso di parola, foss'anche quello del lamento (sono sventurato, gli uomini mentono ecc.). Poiché credo, parlo; non parlerei se non credessi; credere a quel che dico, e persistere nel dire, deriva dalla capacità di credere nell'Altro, e non certo dall'esperienza esistenziale, necessariamente deludente.

Nell'universo indoeuropeo, la parola latina credo risale al sanscrito sraddha che denota un atto di "fiducia" in un dio, implicando restituzione sotto forma di favore divino concesso al fedele. Da tale radice deriva, laicizzato, il credito finanziario: io deposito un bene aspettandomi una ricompensa (Emile Benveniste ha minuziosamente argomentato questo sviluppo): io investo. Il mio bisogno di credere, che mi offre le condizioni ottimali per sviluppare il linguaggio, sarà il fondamento sul quale potrà fondarsi un'altra capacità, corrosiva e liberatrice: il desiderio di sapere. Se e solo se sono portato/a da quest"investimento" - da questa fede - che mi fa sentire un terzo amante/amato a parlargli, solo allora posso finalmente esplodere in domande. Chi non conosce l'ansia giubilatoria del bambino che fa domande? E non smette di riportarci a quell'inconsistenza dei nomi e degli esseri, dell'Essere, che non lo terrorizza più ma lo fa ridere, perché crede che è possibile nominare, far nominare. «So che so che so...».

A quest'archeologia del "bisogno di credere" dal lato del padre l'ascolto analitico aggiunge oggi i legami precoci madre-figlio, a cominciare da quel «sentimento oceanico» che Romain Rolland aveva indicato a Freud come una componente essenziale del sentimento religioso. Certezza estatica di un corpo senza frontiere e senza organi (le quattro acque di Teresa d'Avila) e minaccia catastrofica di perdita di sé, anzi di dissoluzione biologica (il fuoco di Giovanni della Croce): la clinica esplora quelle esperienze limite quando sfociano nelle "nuove malattie dell'anima" (tossicomania, psicosomatosi, passaggio all'atto suicida, vandalismo ecc.); l'arte moderna vi cerca "linguaggi" che sfidino la figurabilità e la rappresentazione; e le teorie del significato si riagganciano alle scoperte di Platone nel Timeo, che abbozza uno "spazio prima dello spazio", un ricettacolo detto chora, che sarebbe nutritivo e materno, anteriore al padre in tutti i sensi, e che tenterebbe un "recupero" ontologico dell'atomismo di Democrito. Io e la Mia Genitrice/Creatrice: come doppio dell'investimento paterno? La stessa psicoanalisi fatica ancora ad accostarsi a questo continente. Lacan pensava che il motto della psicoanalisi dovesse essere «Scilicet»: «Puoi sapere». In realtà puoi sapere da dove vengono i bambini, da dove viene che tu parli, ciò che dici ecc. Aveva dimenticato di ricordare che "puoi sapere" se, e solo se, credi di sapere. Per arrivare eventualmente a sapere perché credi, ciò che vuoi dire credendo, ciò che credi... Il cattolico che Lacan era in origine doveva credere che era evidente e che era inutile insistere. Insomma, bisogna credere che è giunto il momento di ritornare al «plusvalore» della parola, al suo sostegno che è il suo «plusgodere», diceva, risalendo più lontano, fino al credere...

La psicoanalisi non ha lo scopo di trovarci il miglior partner amoroso né la situazione professionale più adatta. La psicoanalisi ci insegna che la capacità di avere senso è ancorata nel destino non solo della funzione paterna, ma in senso più ampio della funzione genitoriale: padre e madre. Infatti siamo in vita se, e solo se, possiamo investire tale funzione, nel senso etimologico di "investire": unirci affettivamente con la sua alternità amante, per poi interrogarla nel desiderio e attraverso l'innovazione. Freud, ebreo ateo, l'uomo meno religioso del suo secolo, giunge a questa conclusione stravagante: la mistica e la psicoanalisi mirano a un punto comune, «un punto d'attacco simile». Com'è possibile? L'Io dell'analizzante, liberato dalla tutela del Super-io, amplia le sue percezioni e si consolida in modo da appropriarsi dei frammenti dell'Es. «Là dove Es era, l'Io deve accadere». Sarebbe questo il lavoro della civiltà: nel lungo periodo, forse impossibile, come il prosciugamento dello Zuidersee. Siamo nel 1932, Freud scrive le sue Nuove conferenze sulla psicoanalisi. Presto calerà la notte sull'Europa e sul mondo. Ma Freud non abbandona la sua archeologia del «punto di attacco simile» tra psicoanalisi e mistica. Poco prima della morte, il 22 agosto 1938, l'ultimo messaggio della sua mano traccia però una linea di demarcazione in questa similitudine inquietante: «Misticismo: autopercezione oscura del regno, al di là dell'Io, dell'Es». Intendiamo: immersione e perdita dell'Io nell'autopercezione dell'Es (mistica), ma riorganizzazione dell'Io attraverso un'interminabile delucidazione dell'Es (psicoanalisi). Senza aderire all'esperienza mistica, ma anche senza ignorarla, l'ascolto analitico dà senso al suo godimento: costruendo/decostruendo continuamente il legame edipico, e fino all'Identificazione primaria con il Padre della Preistoria individuale. È proprio questa capacità di significare, questo significato ancorato nel destino della funzione paterna genitoriale fino agli affetti e le pulsioni, che la psicoanalisi freudiana ci lascia in eredità. Collegando il più profondo intimo alle mutazioni storiche attraverso l'espediente dell'evoluzione delle strutture familiari e della regolazione della riproduzione, il significato onto e filogenetico fa entrare la storia nell'esperienza del lettino. Freud la chiama «un'alta mira negli umani», «Das höhere Wesen in Menschen». Lungi dal tradire una qualche regressione idealista, questa teorizzazione designa le logiche di una immanentizzazione della trascendenza, che il fondatore della psicoanalisi ha constatato attraverso e nel transfert, nell'ambito della «cura della parola» che ha inventato.

I Lumi hanno desacralizzato le religioni denunciandone gli abusi, senza peraltro decostruire il bisogno di credere. Lo stesso Diderot, dopo aver immaginato la sua Monaca che, finalmente liberata dalla mortificazione e dagli abusi sessuali, si trova a essere "libera" attrice nel mondo profano, quel Diderot ateo impenitente, non riusciva a finire il suo romanzo e piangeva. Freud eredita tale ricomposizione, intrapresa da Diderot, della soggettività parlante che pianta in asso l'Ego Cogito e si rivela posseduta dal desiderio amoroso del senso dell'Altro. Con la teoria dell'inconscio, la modernità cerca di essere più lucida di Diderot. Noi non rinunciamo al bisogno di credere che non ha ancora un "oggetto" in senso proprio, ma si limita a investire di senso una Chora (prima del significato, diceva Platone nel Timeo) o a presentire una Cosa, Res divina (dicevano i dottori): polo calamitato degli affetti, non ancora dissociato da un non ancora "io". Non rinunciamo, dunque, al bisogno di credere. Ma quando l "oggetto" di tale bisogno si fissa in Oggetto Assoluto di desiderio, in Dio Padre consacrato dal credo, gli rivolgiamo i nostri desideri di sapere.

Vi sto forse dicendo che la psicoanalisi è figlia dell'ontoteologia, il suo ultimo avatar, come l'accusano certi detrattori? O è la nostra comune appartenenza alla famiglia patrilineare e patriarcale a farci scoprire le (quasi) identiche logiche nei soggetti scaturiti da questo stesso quadro antropologico, per trarne valori universali? Poiché la "funzione paterna", e con essa l'equilibrio tra il "bisogno di credere" e il "desiderio di sapere" che sottintende, restano a fondamento della capacità di pensare dell'Homo sapiens, il loro smantellamento o la loro ricostituzione comporteranno cambiamenti del regime di pensare, così come dell'etica sociale. In tale evoluzione la psicoanalisi, ben più che accompagnare accortamente, proteggerà il percorso dal rischio di sbandate.

Il senso della fede, tra arte, poesia e inconscio
Per concludere, qualche parola sul dogma dell'infallibilità in questo contesto. Se si segue il percorso di Newman a partire dall'evidenza sensibile nella precomprensione fino all'assenso concettuale che consolida tale verità immediata, si constata che viene a costruirsi una coerenza logica che porta necessariamente all'esigenza, logica anch'essa, di chiudere questo processo di assensi attraverso una rappresentazione finale che chiuda il cerchio incarnando l'incarnazione. L'istituzione della Chiesa come corpus mysticum e il dogma dell'infallibilità pontificia sono queste rappresentazioni finali del processo di rappresentazione di cui Newman tenta di circoscrivere la «grammatica». L'infallibilità papale è la rappresentazione del fatto (the fact, secondo Newman) che è possibile - all'infinito - rappresentare la rappresentazione dell'invisibile, e tuttavia pensabile, bisogno di credere, che non è altro che l'investimento amoroso Padre/Figlio e che specifica il fatto umano. La Chiesa e il Papato possono oggi sostenersi con la sola autorità di questa "coerenza logica" che è venuta a costruirsi lungo tutta la storia della teologia, e che era finemente apprezzata da James Joyce, grande ammiratore anche di Newman («Nessuno ha mai scritto in inglese una prosa paragonabile a quella di un piccolo pastore fastidioso divenuto principe dell'unica autentica Chiesa...», scrive). Due condizioni supplementari sembrano mancare loro per mettere al sicuro sensorialmente e logicamente il loro dispositivo lacerato dal mondo moderno.

1) Il Credo (nel quale l'ascolto psicoanalitico decifra quell'identificazione con il padre della preistoria individuale, che sarebbe alla base della capacità di avere senso) si è fondato nel corso della storia, in particolare quella cattolica, su linguaggi che si collocano a vicinanza sensoriale massima dall'esperienza amorosa. Sono i linguaggi delle arti a esplorare e praticare tale vicinanza con la parabola invisibile dell'Oggetto d'amore. La Chiesa come corpus mysticum è possibile solo come una chiesa di musica, pittura, poesia. Dove sono oggi le arti nella Chiesa? In altri tempi, i pensatori del cattolicesimo sapevano sentire e far sentire quella che Baltazar Gracian chiamava «l'intensa profondità delle parole»: le «ombre» e le «luci» di Newman. La verve detta "poetica", che trasforma in scrittura lo stanco codice della comunicazione usuale, sembra oggi estranea ai discorsi teologici.

2) La «grammatica» secondo Newman dettaglia l'«assenso» sul quale si fonda il legame Padre/Figlio, ma è la psicoanalisi a interpretare tale unificazione come un ciclo sublimatorio fatto di affetto, di desiderio e di amore del senso. La colpevolizzazione, la condanna e la repressione degli affetti e dei desideri, così come la minuziosa individuazione delle logiche degli «assensi», non potrebbero assicurare la sublimazione di quel legame che Newman definisce fatto di «lotte» e di «prove». 128Più delle altre scienze dell'uomo, la psicoanalisi e con essa le nuove espressioni artistiche sarebbero forse nichiliste e distruttrici o piuttosto sfide d'innovazione? All'ebraismo non sono mancati rabbini per far sentire che la tradizione si trasmette attraverso le rotture. E sono molti coloro che accolgono ora il cristianesimo come un compimento dell'ebraismo oltre la rottura. È venuto il momento di scommettere su un umanesimo che sia possibile solo a condizione di «transvalutare» (Nietzsche) la tradizione che lo precede. Approfondendo insistentemente l'analisi delle diverse versioni del bisogno di credere che continua a fondare il desiderio di sapere.

 

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