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Frontespizio del volume «Ars Magna» di Gerolamo Cardano (1545)

L’astronomo che giocava d’azzardo

notizie ‒ 26 novembre 2017

Gerolamo Cardano e la meccanica quantistica

di Carlo Maria Polvani

 

Nel 1962, Thomas Kuhn (1922-1996) — che fu con Karl Popper (1902-1994) tra i più influenti filosofi della scienza del XX secolo — propose la teoria del paradigm shift, secondo la quale le discipline scientifiche si riorganizzano periodicamente sulla base di nuovi principi, sotto la spinta di interpretazioni inedite di nuovi dati sperimentali, sufficientemente contundenti da minare la validità di assiomi fino allora ritenuti incrollabili. Un ottimo esempio di un cambiamento di paradigma scientifico è la rottura che si è verificata, nel campo della fisica, fra la meccanica classica e la meccanica quantistica.

Soppiantando la meccanica aristotelica, la meccanica classica, introdotta da Isaac Newton (1642-1727) e perfezionata da Joseph-Louis Lagrange (1736-1813) e da William Hamilton (1805-1865), raggiunse il suo apogeo durante l’epoca del positivismo ottocentesco. Dettando a tutt’oggi le leggi del movimento degli oggetti che popolano la nostra esperienza sensibile, essa si regge su tre principi: l’inerzia (un corpo mantiene il suo stato di moto finché non è sottoposto a una nuova forza), la misura (la variazione del movimento è proporzionale alla forza che lo causa) e il principio azione-reazione (a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria).

Nel 1900, però, Max Planck (1858-1947) teorizzò che, per quanto riguarda le particelle subatomiche e le radiazioni elettromagnetiche, l’energia fosse emessa e assorbita in pacchetti da valori circoscritti, denominati “quanti”. Nacque così la meccanica quantistica che, affinandosi poco a poco nel corso del secolo scorso insidiò, a livello dell’infintamente piccolo, le certezze stabilite da quella classica. La meccanica classica distingue i sistemi di riferimento inerziali da quelli non-inerziali (exempli gratia l’autista di un macchina che sfreccia non percepisce il suo spostamento in modo simile al pedone che l’osserva dal ciglio della strada); la quantistica postula che la mera osservazione di un fenomeno dinamico ne cambia la natura. La meccanica classica riconosce almeno due tipi di movimento quello degli oggetti e quello delle onde (exempli gratia una palla da biliardo non si sposta nello stesso modo di un’onda sul mare); la quantistica osserva che la materia manifesta comportamenti dualistici, giacché al contempo corpuscolati e ondulatori. La meccanica classica riesce a misurare simultaneamente i parametri essenziali di un movimento (exempli gratia si può conoscere al tempo stesso la posizione e la rotta di un aereo in volo), mentre la quantistica nega la possibilità di determinazione contemporanea della ubicazione e della velocità.

Sia la meccanica classica sia quella quantistica però, non avrebbero mai potuto consolidarsi senza i contributi di grandi matematici quali Carl Jacobi (1804-1851) per la prima — che finalizzò il “teorema Hamilton-Jacobi” sulla conservazione delle quantità — e David Hilbert (1862-1943) per la seconda — che introdusse lo “spazio di Hilbert”, generalizzazione di quello euclideo—. Apparirebbe quindi prima facie azzardato sostenere che i lavori matematici del genio rinascimentale Gerolamo (o Girolamo) Cardano (1501-1576) siano intrinsecamente collegati alla rivoluzione scientifica che ha permesso la nascita della meccanica quantistica.

E, tuttavia, sembra essere proprio questa la provocazione avanzata da Michael Brooks, in L’astronomo quantistico. Storie e avventure di Girolamo Cardano: matematico, medico e giocatore d’azzardo (Torino, Bollati Boringhieri, 2017, pagine 211, euro 22). 

In una specie di romanzo biografico, l’autore britannico usa come strumento di divulgazione scientifica le vicissitudini di cui fu costellata la vita dell’umanista pavese, famoso per aver descritto la sospensione cardanica — il meccanismo che permette, fra altro, il funzionamento delle bussole e dei giroscopi, e il giunto cardanico o universal joint in inglese — il dispositivo dalle polivalenti applicazioni ingegneristiche che consente, fra l’altro, la trasmissione delle rotazioni dall’albero motore all’asse delle ruote). L’elegante traduzione di Benedetta Antonielli d’Oulx poi, rende così bene il carattere ironico che l’autore ha voluto inoculare al suo saggio, che gli aficionados di British humor non potranno non apprezzare il risultante mélange sarcastico fra gli aneddoti tragici di un uomo dalle mille contraddizioni e la descrizione di una panoplia di concetti fisico-matematici.

Di immani disgrazie, la vita del Cardano fu tragicamente piena: figlio illegittimo (anche se alla fine riconosciuto) sopravvissuto ai tentativi di aborto di una madre vedova, il piccolo Gerolamo contrasse la peste della sua balia (falcidiata, come due suoi fratellastri dalla terribile malattia infettiva); crebbe debole di salute ma indomito di carattere, finché si oppose alla volontà del padre di farne un giurista, riuscendo a laurearsi in medicina nonostante le inimicizie dei professori (per lo più dovute alla sua inguaribile sfrontatezza). Rimasto vedovo dopo la nascita di tre figli (che non mancarono di causarli enormi dispiaceri: il maggiore fu decapitato per aver avvelenato la moglie e il minore fu denunciato dallo stesso padre per furto) protetto e avversato da Pontefici e sovrani con i quali intrattenne relazioni altalenanti, ottenne le cattedre di medicina degli atenei di Pavia prima e di Bologna poi. Brillante medico quanto scellerato astrologo (emetteva oroscopi grotteschi come quello di una lunga e felice esistenza all’arcivescovo di Saint Andrews che finì di lì a poco sulla forca) fu arrestato dal Tribunale dell’Inquisizione durante il papato di san Pio v. Obbligato ad abiurare, lasciò l’insegnamento e si trasferì a Roma dove, per benevolenza di Gregorio XIII (suo ex-collega all’Alma Mater più antica d’Europa) ricevette una pensione e si dedicò sino alla morte alla redazione della sua stessa autobiografia.

Le innumerevoli traversie che aveva dovuto affrontare avevano spinto il povero Cardano a inventarsi un sistema matematico per vincere — spesso barando — ai tanti giochi d’azzardo a cui era compulsivamente avvezzo, rendendolo così il progenitore della teoria delle probabilità poi formalizzata da Pierre de Fermat (1607-1665) e da Blaise Pascal (1623-1662). E a cimentarsi con le difficilissime soluzioni delle equazioni cubiche e quartiche, pubblicando avventatamente i risultati confidategli dal collega Niccolò Fontana (1499-1557), detto Tartaglia. Collega che, come Cardano, non ebbe una vita delle più comode, visto che balbettava dall’età di 13 anni per una frattura cranio-mascellare riportata durante l’aggressione nella quale era stato assassinato suo padre.

A onore del vero, va quindi ammesso che il calcolo probabilistico che permette di determinare le possibilità di prodursi di eventi attribuibili a variabili discontinue (exempli gratia lanciando due dadi, la probabilità che esca un 7 è sei volte circa quella di quella che esca un 2) e che i numeri complessi (quelli composti da un numero reale più un quoziente di un’unità immaginaria i, definita da i2 = –1) con cui Cardano aveva giocherellato, costituiscono effettivamente degli strumenti indispensabili per intraprendere computazioni nel campo della meccanica quantistica. Ma pare esagerato affermare che Michael Brooks sia riuscito a dimostrare un nesso causale fra le intuizioni dell’estroso lombardo e lo sviluppo della matematica usata nella fisica dei quanti.

Nondimeno, va riconosciuto al divulgatore inglese l’avere costruito un saggio così accattivante da fare emergere la singolare e ricorrente coincidenza fra genio e sregolatezza che caratterizza tanti scienziati e che probabilmente è all’origine del luogo comune che dipinge tanti uomini di scienza come persone dal carattere introverso, insensibile, vedi asociale. 

D’altronde, lo stereotipo secondo il quale gli scienziati soffrano di una limitata dimestichezza nella sfera delle relazioni umane è scherzosamente illustrato in una nota barzelletta la cui versione originale sembra attribuibile a George Smoot (1945), Premio Nobel per la fisica nel 2006.

Un giovane fisico entra in una gelateria e ordina due coppe al cioccolato; ingurgita la prima avidamente e pone la seconda davanti a una sedia vuota aspettando che il gelato si sciolga. Il cameriere gli chiede allora se qualche cosa non sia stato di suo gradimento e lo scienziato gli confessa che, secondo i principi della meccanica quantistica, esiste la possibilità che la materia sulla sedia vuota si riorganizzi in una bellissima ragazza che, conquistata dal gentile dettaglio, accetti di uscire con lui. Quando l’inserviente gli suggerisce d’invitare fuori una delle tante signorine che frequentano il locale poiché fra di loro ve n’è almeno una pronta ad accettare, il fisico risponde: «Inutile: la probabilità di un tale evento è statisticamente nulla».

 

(Da L’Osservatore Romano, Anno CLVII, 2017, N.272 p.4)